Una petite
madeleine e si risvegliano improvvisamente ricordi
dell’infanzia. Così accade che un dolce francese diventi il catalizzatore
dell’opera di Proust “A la recherche du temps perdu”. Oggi spesso il cibo perde
il suo senso più stretto di alimento e diventa qualcosa d’altro: una ricerca di
un momento perduto, di un attimo passato che, grazie al gusto, torna alla
mente. Il comfort food innanzitutto è condivisione attraverso le papille gustative.
Succede che il cibo diventi ricordo. Il
cibo è quindi spesso veicolo di innamoramenti, ma anche il nutrire (e non
l’essere nutriti) può far nascere sentimenti. Il cibo non è solo innamoramento,
ma è anche aiuto importante nei momenti difficili e di maggior tensione.
Semplice e
genuino o junk food e pieno di grassi, il comfort food spesso ci ricorda
l’infanzia, ci coccola e scalda il cuore nei momenti “no” della nostra vita.
Da buoni
italiani il nostro comfort food può essere la torta della nonna, il polpettone
della zia, la minestrina della mamma, ma anche una grande coppa di gelato
mangiata davanti alla TV o un hamburger pieno di grassi consumato camminando
tra le vetrine di un centro commerciale.
È il cibo
che gratifica, rassicura, consola, calma, a volte anestetizza i momenti di
profonda tristezza.
Il concetto
di comfort food è nato negli anni settanta in USA ed è piuttosto difficile da
tradurre in italiano.
I comfort
food sono sapori consolatori e spesso
nostalgici e più che un cibo si può considerare una manna dal cielo,
soprattutto dopo una giornata no.
Il comfort
food è figlio della comfort zone, ovvero una condizione mentale in cui una
persona agisce in uno stato di assenza di ansietà.
Ogni persona
confida le proprie debolezze, sopperisce alle proprie mancanze in un piatto
particolare, perché legato a sensazioni
del tutto particolari.
Il cibo non
rappresenta, per noi umani, soltanto un mero strumento di sopravvivenza fisica:
assegniamo inevitabilmente tutto un complesso di significati sociali e
affettivi al cibo, tant’è che, lo diceva già Levi-Strauss, ciò di cui ci
nutriamo non è mai solo buono da mangiare, ma necessariamente anche “buono da
pensare”.
Nella vita
adulta, un buon indicatore della salute psicologica e della capacità di gestire
le emozioni e gli stress non è data tanto dal tipo di strategia che adottiamo
per sentirci meglio, ma soprattutto da quante modalità diverse e variegate
possiamo adottare per affrontare le difficoltà e darci conforto. Tante attività
possono essere di conforto e, se lo sono realmente, ci lasciano uno stato
d’animo più sereno con il quale ci sentiremo più in grado di affrontare la
situazione. Quando i comfort food rappresentano invece una dipendenza, dopo un
temporaneo sollievo lasciano generalmente sensi di colpa.
In generale,
quando siamo dipendenti dai comfort foods stiamo soltanto “mangiando” le nostre
emozioni per non sentire ciò che ci disturba allontanandoci sempre più dal vero
problema e mettendoci nelle condizioni più difficili per affrontarlo.
Quando il mangiare diventa il primo meccanismo per affrontare le emozioni, quando il primo impulso
è quello di aprire il frigo perché siamo stressati, turbati, stanchi o
arrabbiati, vuol dire che si è attivato un pessimo
circolo vizioso in cui i sentimenti
non vengono affrontati nel modo giusto.